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L’ambiguo rapporto tra arte e design

  • IEDentity
  • "In-disciplina"
  • Numero 02 - 11 Aprile 2018
Gillo Dorfles
  • Gillo Dorfles

In questo numero vogliamo rendere omaggio a Gillo Dorfles, regolare collaboratore di IED sin dalla sua nascita, nonché figura critica ed etica di riferimento per “pensare al design”. In occasione del numero 2 dei Cuadernos de Diseño, contribuì alle considerazioni sull’arte e sul design, con un invito a concepire quest'ultimo andando oltre le convenzioni legate alle tradizionali discipline e quindi oltre un approccio che, pur essendo stato efficace per la cultura del progetto, oggi è diventato obsoleto e non è più in grado di fornire una risposta adeguata all’esperienza del nostro tempo.

S.T., Gillo Dorfles, 2011, serigrafía 39 x 50 cm, 47/50

 

L’ambiguo rapporto tra le arti visive e il design si ripresenta di volta in volta con alterne vicende, ed è uno di quei problemi la cui soluzione non potrà mai avvenire in maniera definitiva, proprio per le contrastanti vicende che l’arte da un lato, e il design dall’altro vengono ad assumere a seconda del prevalere di istanze esclusivamente estetiche o di inevitabili agganci funzionali ed economici.

La base, poi, di questo equivoco rapporto è anche dovuta al fatto di aver considerato a lungo il product design come la prosecuzione dell’antico e glorioso artigianato. Il che è vero solo in determinati casi.

Anche quando sembra che il legame regga, è decisamente travolto dall’intervento della creazione di serie attraverso il mezzo meccanico. Già Herbert Read aveva contribuito con i suoi studi pioneristici a rinforzare questo equivoco, con fare ascendere i primi vagiti del design (ossia di una progettazione a un fine funzionale) alle antiche ceramiche, cinesi, cretesi, precolombiane ecc., ed è proprio per evitare di riesumare un discorso circa la autonomia del design e la sua esistenza solo a partire dalla realizzazione in serie a metà dell’ottocento che intendo soffermarmi esclusivamente sul problema del rapporto tra “arti pure” e design a partire da questo periodo, senza voler coinvolgere nella mia analisi un discorso sui rapporti – certo essenziali – tra artigianato e design, oggi quasi inesistenti, eppure assolutamente non trascurabili.

Se, allora, ci volgiamo  a quello che va considerato il settore di un autentico product design (e non intendo qui affrontare il vasto settore del graphic design che, da sempre, è intimamente legato alla coeva produzione pittorica) potremo innanzitutto affermare quanto segue: il design, una volta affrancatosi dall’artigianato ha attraversato almeno tre periodi fondamentali:

1) un primo periodo dove il binomio forma funzione era imperativo;

2) un secondo periodo – quello del radical design e delle molte formazioni “sovversive” (Alchimia, Memphis, Archigram, Superstudio, UFO) che si schieravano contro il “calvinismo estetico” del Bauhaus e poi della Scuola di ULM;

3) un ultimo periodo, l’acme della ricaduta nel decorativismo e nella ornamentazione che doveva ricondurre ad un maggior equilibrio nel rapporto forma funzione evitando spesso pericolose interferenze con la pop art e l’affermarsi di un design eccessivamente ludico. 

 

A questo punto occorre soffermarsi brevemente sopra ad una ulteriore svolta epocale che è venuta ad alterare il rapporto tra arte e design; la svolta in cui è venuto a trovarsi il design all’avvento di una nuova era, quella elettronica, è senz’altro decisiva per la sua futura evoluzione, e forse altrettanto gravida di conseguenze di quella che segnò a suo tempo il passaggio dalla progettazione ancora artigianale della Arts & Crafts a quella dell’oggetto di serie del primo razionalismo. Ma in che consiste effettivamente questa svolta? Soprattutto nel fatto che la progettazione dell’oggetto industrializzato – non basata sopra la meccanica di un tempo ma su quella elettronica – non segue più, o segue solo in parte, le finalità formali valide fino a ieri: ossia il rapporto imprescindibile tra forma e funzione; giacché con la scomparsa della componente meccanica la carrozzeria, basata appunto sull’“ingombro” di tale componente è ormai divenuta superflua. Mentre dall’altro canto la nuova funzionalità del prodotto viene ad essere in buona parte affidata al fattore “segnaletico”, alla individualità semantica, e ai problemi sempre più decisivi della interfaccia con l’utente; nonché all’indispensabile influenza dell’aspetto esterno quale tramite della semanticità dell’oggetto e quindi della sua vendibilità. Il che naturalmente avvicina il prodotto di design a quello di molte arti contemporanee. Per questa ragione oltretutto il quoziente affidato al marketing diventa di primaria importanza ed è alla base di alcune recente metamorfosi formali dell’oggetto.

Non si dimentichi infatti come la rapidità del consumo formale o l’obsolescenza – da sempre presente nell’ambito del design proprio per l’esigenza di una costante “appetibilità” dello stesso – oggi vengono ad essere incentivate per il fatto che molti prodotti, soprattutto su base elettronica, vanno incontro ad una incredibile accelerazione tecnologica. Basterebbe infatti por mente al settore della “home automation” alla invenzione di gadgets domestici che darà vita ad una nuova gamma di sagome per la casa e l’ufficio, dove l’importanza della programmazione informatica sarà pari a quella della progettazione disegnativa.

 

S.T., Gillo Dorfles, 2005, acquaforte e acquatinta. 47,5 x 60 cm, P.A.

A questo punto l’accavallarsi del “mondo degli oggetti” e il “mondo dei concetti” è forse uno dei fenomeni più caratteristici del momento che attraversiamo. E dicendo accavallarsi intendo sottolineare come lo spartiacque, che ancora ieri distingueva da un lato l’arte con la A maiuscola da quella utilitaria e dall’altro lato la speculazione attorno all’arte dalle elucubrazioni concettuali sostitutive della stessa, è venuto man mano attenuandosi. Chi non ricorda i tempi dell’antico razionalismo bauhausiano e ulmiano, e chi non ricorda le grida di indignazione rivolte ai primi esperimenti della pop art? E chi, dall’altra parte non si sovviene delle tante elaborazioni concettuali scambiate per opere d’arte avanguardia (Holzer, Darboven, Kosuth, Chiari ecc.)?

Quello che sta a dimostrare l’avvenuta osmosi tra il mondo degli oggetti (artistici ma anche funzionali) e quello dei concetti (filosofici ma anche materializzati a fini estetici) è proprio l’avvento di molte forme ibride, eppure non trascurabili, che popolano il nostro universo quotidiano. Questa selva di forme ibride (cartelloni pubblicitari, oggetti di consumo, spot televisivi, opere d’arte equiparabili a questi ultimi) ci abitua – bon gré mal gré – ad accettare anche certi aspetti che in passato ci sarebbero parsi oltremodo equivoci.

Non si può negare che la contaminazione tra i due settori, così ben distinti sino a qualche decennio orsono, si sia fatta sempre più marcata. A che cosa è dovuta tale contaminazione? Forse proprio ad una estetizzazione globale della vita dei nostri giorni. A differenza di molte epoche passate, oggi è possibile constatare un subdolo infiltrarsi nei più nascosti ricettacoli della quotidianità di elementi artistici o pseudo-artistici che valgono a indorare la pillola del nostro panorama visivo.

 


E allora questo spiega i molti tentativi di creare oggetti d’uso che siano sempre più vicini a quegli “oggetti d’arte” che un tempo vivevano isolati sotto una metaforica campana di vetro e che erano depositari per lo più di valori mitopoietici e magici mentre oggi invadono i grandi magazzini e le showrooms degli arredatori e mobilieri di punta. Merito o colpa, insomma, l’aver abbandonato il livello di guardia di una funzionalità a tutti i costi a favore di un ludismo incoercibile? Merito e colpa insieme, perché se è vero che questo atteggiamento di recupero dell’edonismo nel settore del product design ha permesso la realizzazione di nuovi prototipi dove anche la componente simbolica oltre che estetica viene riscoperta (basti pensare a certi mobili mitici: Ron Arad, Zaha Hadid, Bořek Šípek, Riccardo Dalisi ecc.); è anche vero che – data la notoria precarietà del gusto, così spesso trapassante nel kitsch – questa tendenza ha spesso reso possibile l’equivoco di considerare artistico quello che è soltanto giocoso, e di trascurare nell’oggetto d’uso quelle costanti ergonomiche da cui, volere o no, è impossibile prescindere del tutto.

Autore: Gillo Dorfles