Il nomadismo è una sfida che il design non può ignorare, ma è altamente complessa e pertanto deve essere affrontata da diversi punti di vista: le implicazioni sociali della mobilità di massa, i servizi da creare, la dimensione etica e i vantaggi per le comunità, a cui il design può contribuire. Dal Brasile ci giungono alcune testimonianze che ci invitano a riflettere su questa realtà.
Nuove frontiere, un design all’insegna del dialogo
Nell’ultimo decennio, l’Europa ha accolto un milione di immigrati dall’Africa subsahariana. Migliaia di rifugiati venezuelani cercano rifugio in Brasile. Vivono legalmente in Italia cinque milioni di stranieri, che costituiscono l’8% della popolazione (lo stesso numero di italiani che vivono all’estero), mentre sono mezzo milione gli immigrati clandestini nel nostro Paese.
La realtà del nomadismo e le sfide che esso crea generano reazioni. Il Regno Unito sta discutendo l’uscita dall’Unione Europea. Negli Stati Uniti è in corso la costruzione di un muro per separare il Paese dal Messico. Dieci anni fa il 33% degli studenti spagnoli riteneva che gli immigrati clandestini dovessero tornare nei loro Paesi. Oggi, secondo una ricerca del Centro de Estudos de Migrações e Racismo (CEMIRA), la percentuale ha raggiunto il 53%. Nonostante parlino la stessa lingua, le persone provenienti dall’America Latina sono il terzo gruppo maggiormente rifiutato dagli spagnoli, alle spalle di marocchini e Rom.
Per Anderson Penha, docente presso il corso post laurea in Design Strategico e Innovazione di IED Sao Paulo, il mondo è sottoposto a numerosi rapidi cambiamenti e non riesce a elaborarli alla stessa velocità.
“Stiamo attraversando un processo di ‘ebollizione’. Le persone cercano chiarezza e iniziano a riorganizzare tutto. Come reazione, le nostre società si stanno bruscamente rinchiudendo in se stesse, al punto da erigere muri. La causa di questo scenario è l’instabilità. Se si analizzano le migrazioni e i cambiamenti storici sin dalla nascita della civiltà, si vedrà che l’umanità a volte si apre, a volte erige barriere. Esiste un’alternativa. Durante i momenti di chiusura all’esterno, si attraversa un periodo di adattamento e riorganizzazione delle identità sociali e anche individuali. Lo spirito del nostro tempo è un processo di polarizzazione. Ci sarà sempre il punto di vista di chi vuole proteggere una cultura e il punto di vista di chi vuole o ha bisogno di entrare per fare scambi”, osserva Penha.
2 Il fallimento della fluidità
Se la promessa della globalizzazione e del World Wide Web era rendere più flessibili i confini, qualcosa non è andato come ci si aspettava. I designer di servizi, mobilità, comunicazione e vari altri settori si trovano a dover fronteggiare questi problemi. Qual è il ruolo del design nell’affrontare queste sfide su scala globale con forti impatti locali?
La fase dirompente ha già avuto luogo. Nel contesto del design si parla molto di disgregazione. Abbiamo messo questo concetto all’ordine del giorno, ma fa parte del passato. “Ora stiamo costruendo un design incentrato sul dialogo. Il problema è che la sua creazione comporta forti divergenze: quanto siamo disposti a dialogare in realtà?”, chiede Penha.
Penha è uno degli organizzatori del progetto Contrafluxo, nella cosiddetta “Grande ABC” un gruppo di città conurbate con la metropoli di San Paolo, regione che in passato era il più grande centro di produzione automobilistica dell’America Latina, ma che oggi sta soffrendo degli effetti economici dell’esodo delle case automobilistiche in cerca di manodopera più economica e incentivi fiscali.
“Il problema non sono le auto, il problema è il movimento di persone, che ha un impatto sociale, economico e culturale. Perché la Grande ABC non può dar vita a un nuovo sistema di movimento, una nuova meccanica e fungere da riferimento per la mobilità? Creiamo una residenza creativa per attirare persone, dibattere e discutere gli effetti di tutto questo”, afferma.
Questa è una delle dimensioni del nomadismo, che testimonia l’arrivo di auto a guida autonoma, mentre migliaia di persone continuano a vivere in camper o in normali auto parcheggiate in varie parti del mondo. Le contraddizioni sono in aumento.
3 Più o meno migranti

Clara Bidorini
Clara Bidorini, designer e docente del corso post laurea presso IED Sao Paulo, è cofondatrice di Namoa, una piattaforma sociale che aiuta i rifugiati a recuperare la propria identità attraverso il lavoro. La piattaforma si occupa di questioni inerenti a situazioni di fragilità e ospitalità. I destinatari sono persone che hanno avuto una carriera professionale o accademica rilevante, che quindi possono diventare portavoce e generare aperture per le loro comunità.
“Stiamo accogliendo persone che non riescono a ritrovare una propria identità, il che riguarda questioni di genere, etniche (nel contesto del razzismo) e anche di empowerment femminile, perché molte donne rifugiate provengono da situazioni in cui imperversa il maschilismo. Arrivano in Brasile come “mogli di”, o “figlie di” e si ritrovano in un Paese caratterizzato da maggiore apertura. Il grande tema è l’identità, il modo in cui le persone la mantengono e, allo stesso tempo, si adattano a essa. È necessario procedere a una traduzione culturale.”
Clara è nata a Somma Lombardo, piccola cittadina della Lombardia, ma ha vissuto in Portogallo, in Svizzera e si è da poco trasferita in Brasile. “Sono affascinata dai viaggi come modalità di esistenza. Posso cambiare Paese per scelta. Ho così tanti privilegi da non potermi considerare un’immigrata, se non come donna in determinati contesti di maschilismo. Sono di razza bianca. Ho studiato in un Paese dove l’istruzione è praticamente pubblica. Non ho una disabilità che mi impedisca di esercitare pienamente le mie attività. Sono più nomade di un’immigrata, ma i miei colleghi di Namoa non hanno i miei stessi privilegi.”
“Namoa”, in tupi-guaraní, una delle lingue dei popoli indigeni brasiliani, significa “forestieri”. Recentemente, i partecipanti al progetto hanno coniato una definizione che li descrive ed esprime bene il loro approccio: homo sapiens migrans. “Si tratta di un’espressione ironica. Le migrazioni fanno parte della storia degli esseri umani. Quando l’homo sapiens ha scoperto che poteva trovare soluzioni di vita migliori, ha cambiato luogo. Questo dipende dalla nostra intelligenza istintiva, alla costante ricerca di situazioni di comodità e sicurezza. In fondo, tutti siamo ‘forestieri’, per via dell’ondata migratoria iniziata 450.000 anni fa, quando abbiamo lasciato l’Africa”, afferma Clara.
Secondo la designer, bisogna spezzare la logica di “io e l’altro”. Non esiste una tale distinzione. Gli esseri umani migrano secondo i propri bisogni. Clara pone una domanda fondamentale: “Come possiamo rendere razionale agli occhi di tutti questa situazione e far accettare che ognuno di noi è alla ricerca di standard di vita migliori, di un modo migliore di sopravvivere, il tutto nell’ambito di una grande tribù globalizzata?”.
4 Servizi e ricchezza
“Se cerchiamo di creare sistemi per far comunicare tra loro servizi diversi che funzionano in sfere differenti di questo essere nomadi, immigrati o rifugiati, tali servizi, progettati dal design, diventano disponibili per tutti noi”, sostiene Clara.
Curiosamente, gli immigrati rappresentano il 3,4% della popolazione mondiale e sono responsabili del 10% di tutta la ricchezza globale generata, secondo i dati McKinsey. “Che cosa manca ancora affinché le aziende comprendano i vantaggi di avere tra le proprie fila persone venute da fuori? Sguardi diversi portano soluzioni, alternative e mercati differenti, che non esistono. Le aziende stanno iniziando a interessarsi al tema della diversità”, afferma Clara.
Per Anderson Penha, o capiamo che abbiamo immigrati in vari luoghi e ridefiniamo il concetto stesso di immigrato, oppure dobbiamo ridiscutere l’idea di frontiera. “Essere in movimento, essere nomade, significa sapersi adattare a nuovi contesti. È questione di flessibilità, adattabilità, trasformazione, capacità di convivere con l’effimero e con i cambiamenti. Il design può aiutare nel processo di facilitazione linguistica. Se il design riuscirà a chiarire i meccanismi della semantica e a capire come contribuire al processo di integrazione di queste frontiere del pensiero, potrà aiutare a ridurre l’attrito”, sostiene Penha.
In ogni caso, il problema riguarda tutti, e il design, nella sua vocazione ad affrontare questioni complessi e urgenti, è alla ricerca di soluzioni. Le domande sono più delle risposte. Nel frattempo, azioni locali e persone come Clara e Anderson promuovono il cambiamento, trasformando le persone attraverso un design incentrato sul dialogo che, se non esisteva, sta nascendo.
Autore: Ricardo Peruchi
Direttore dei rapporti istituzionali di IED Sao Paulo

Ricardo Peruchi è giornalista, consulente e curatore editoriale. È direttore dei rapporti istituzionali di IED Sao Paulo. Opera nei settori della comunicazione, della cultura e dell'istruzione. Progetta e sviluppa contenuti ed esperienze per le varie piattaforme. Appassionato di design, pur senza essere designer (almeno non in senso tradizionale!), promuove il dialogo tra i realizzatori, i pensatori e gli utenti di quest’area, con particolare attenzione allo sviluppo dell’essere umano e alla trasformazione della realtà. Ricardo Peruchi